Jöel Dicker: «Nel Paradiso degli scrittori tutto è possibile»

155150343-33817382Che fine ha fatto Nola Kellergan? Chi ha ucciso la quindicenne d’America? Eccezion fatta per l’“Inferno” di Dan Brown, il libro del momento è senza dubbio “La verità sul caso Harry Quebert” e pensare che il suo autore, il 27enne ginevrino Jöel Dicker, si era concesso un altro tentativo con la scrittura prima di cambiare strada. E invece il suo libro ha da poco sforato il milione di copie vendute – già premiato con il prestigioso Grand Prix du roman de l’Académie Francaise e in corso di traduzione in 25 paesi – in Italia è edito da Bompiani che punta forte su questo libro ambientato nella provincia americana con un esordio che rievoca le atmosfere di Truman Capote in “A sangue freddo”. Ma il suo vero punto di forza è uno stile narrativo simile a quello di una serie-tv americana di successo, capace di mescolare atmosfere thriller, dialoghi reali e una buona dose di humour pungente.  Il protagonista del libro, il talentuoso scrittore di successo Marcus Goldman, afflitto dal blocco della pagina bianca, decide di tornare dal suo maestro, il romanziere di successo Harry Quebert ma ben presto si troverà invischiato in un’indagine di omicidio in cui l’unico indiziato della morte della giovane Nola sarà proprio l’amico Harry. Una storia d’amore proibita, un editore senza scrupoli, un mucchio di segreti inconfessabili ma impossibili da proteggere sono gli ingredienti di una storia sempre in bilico fra verità e menzogna, in cui nulla è come sembra.

Il suo libro è il caso letterario del momento. E’ vero che aveva intenzione di smettere?

«Questo è il mio sesto romanzo. I precedenti cinque erano stati tutti rifiutati per cui, quando ho cominciato a scriverlo, ho semplicemente pensato che se anche questo sarebbe stato rifiutato avrei cercato altrove la mia strada».

Si muove di continuo fra verità e menzogna, in un gioco degli specchi ma com’è nata l’idea del libro?

«Ho cominciato a scrivere con l’idea di parlare del New Hampshire e da lì ho iniziato ad immaginare il rapporto fra Marcus e Harry che, evolvendosi, mi ha spinto a chiedermi cosa fossero verità e menzogna, in che rapporto si muovessero. Ma non avevo nessuna idea precostituita a riguardo. Mi sono messo a scrivere e in questo senso ogni giorno era una scoperta».

Il rapporto fra maestro e allievo si esplica in delle significative lezioni di scrittura che aprono ciascun capitolo. Come sono nate?

«Viene tutto dalla mia fantasia. Un libro che parla di un altro libro mi permetteva di inserire dei consigli di scrittura; in tal modo potevo definire meglio il rapporto fra Harry e Marcus e al tempo stesso introdurre il capitolo».

Va giù duro con Barnasky facendogli incarnare l’editore pronto a tutto pur di incassare profitto e produrre utili.

«Volevo mettere sotto la lente d’ingrandimento il mondo delle aziende e criticare quegli imprenditori, grandi o piccoli non importa, completamente prigionieri di una spirale in cui contano solo il bilancio, gli utili e la spasmodica ricerca del profitto. Al punto che non importa cosa producono, l’importante è che li faccia guadagnare».

images (9)Scrive che “La malattia degli scrittori è non voler più scrivere senza riuscire a farlo”. Pensa che Philip Roth riuscirà a smettere?

«Conosco la sua storia e il suo proposito ma non sappiamo se ha smesso davvero di scrivere. Voglio dire, magari non pubblicherà più nulla di nuovo e il suo lavoro non sarà più accessibile al pubblico ma è cosa ben diversa dal riuscire a smettere tout court».

In linea con i grandi maestri della letteratura americana come Ernst Hemingway e Jack London, ha associato la scrittura al pugilato. Cosa hanno in comune?

«Si tratta in entrambi i casi di una dura lotta contro se stessi, una battaglia personale, esclusivamente personale, che ha senso solo per chi la compie. Guardando il pugilato ci si può domandare che senso abbia farsi prendere a pugni in faccia ma per il pugile il combattimento ha un senso profondo. Per la scrittura vale il medesimo discorso. Ad un certo punto ti chiedi se il libro piacerà o meno ma la cosa più importante è mettersi alla prova e lottare contro se stessi».

Per Mallarmé tutto il mondo è fatto per finire in un bel libro e lei fa dire ad Harry che solo la scrittura può donare senso alla vita stessa. Per lei la scrittura e la vita in che rapporto sono?

«Per Marcus e Harry solo la scrittura può donare senso al caos delle loro vite ma non è così per tutti chiaramente. Per quanto mi riguarda, io scrivo per realizzare me stesso, per cercare di superarmi e trascendermi. Oggi viviamo in un mondo allarmante e allarmista in cui manca del tutto la proiezione del futuro per la nostra generazione. Ai nostri genitori dicevano di guardare con speranza nei tempi a venire ma noi proprio non possiamo permettercelo e proprio per questo io intendo scrivere. Per lasciare qualcosa di me».

Lei come se lo immagina il paradiso degli scrittori?

«Bella domanda (ride). Lì tutto è possibile, proprio per questo è il Paradiso».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud

Michael Connelly: «Leggere è come mettere benzina nel serbatoio della creatività»

 

Michael Connelly
Michael Connelly

Con oltre 45 milioni di copie vendute nel mondo Michael Connelly è considerato uno fra gli autori thriller più importanti al mondo. Per anni i fan hanno invocato un libro che portasse in pagina i suoi eroi principali, Hieronymus “Harry” Bosch e Mickey Haller – rispettivamente un detective privato e un avvocato penalista – e finalmente Connelly li ha soddisfatti con La Svolta (Piemme, pp.372 Euro 19,90), un thriller molto intenso che non viene meno alla consueta attenzione verso l’evoluzione psicologica dei personaggi. Ha un passato felice nel giornalismo potendo vantare anche la candidatura al Pulitzer per un reportage sui sopravvissuti di un disastro aereo e nonostante il successo raggiunto – i suoi libri sono tradotti in 35 lingue – trova l’ispirazione per la strada e continuando a leggere tutto ciò che trova, giorno dopo giorno. Proprio come profetizzava CervantesMr. Connelly perché ha scelto di portare in pagina contemporaneamente Bosch e Haller?

Considero i miei libri come una sorta di storia continua che si dipana per cui è naturale che i personaggi principali possano attraversarsi la strada reciprocamente. Dando vita al ciclo di Haller ho sancito che lui e Haller fossero fratellastri e in questo libro volevo concedermi la possibilità di tornare indietro ed esplorare le pieghe del loro rapporto».

Bosch e Haller hanno personalità “ingombranti”. È stato difficoltoso trovare il giusto equilibrio a livello narrativo?

«Ammetto che è stato complicato perché volevo che fossero proprio loro due a costruire la storia, bilanciandola alla perfezione. Credo che abbiano due “voci” molto caratteristiche e diverse per cui non avevo paura che il lettore potesse confondersi, piuttosto volevo essere certo che fossero entrambi capaci di portare avanti la storia in modo autonomo».

Parliamo di Hieronymus “Harry” Bosch, il personaggio a lei più vicino. Com’è nato?

«Harry è il risultato di molti differenti detective che ho conosciuto facendo il giornalista e insieme il frutto di tante influenze letterarie e cinematografiche. Proprio per l’aver mescolato tante cose insieme, sia reali che fittizie, spero che il mio Harry Bosch sia un personaggio davvero unico.

È vero che comincia ogni giornata ascoltando “Lullaby” di Frank Morgan in suo onore?

«Sì mi piace molto ascoltare “Lullaby” di Frank Morgan, la considero l’inno di Harry. È una canzone malinconica ma anche piena di speranza. Proprio come Harry».

Ha dichiarato che “la giustizia trionfa solo nel mondo del thriller perché nel mondo reale i casi irrisolti sono davvero numerosi”. Scrive anche per fare giustizia, per mettere le cose a posto?

«Anche per questo motivo. Del resto ho usato più volte reali casi irrisolti come punto di partenza ma almeno nella fiction, venivano risolti».

Le manca qualcosa della sua esperienza giornalistica al Los Angeles Times?

«Non mi manca il lavoro da reporter piuttosto ho nostalgia della vita di redazione e del cameratismo fra colleghi. Mi manca la prospettiva giornalistica, il fatto che al termine della giornata sapevi davvero cosa stava accadendo nella tua città».

Quando ha capito che sarebbe diventato uno scrittore?

«A 19 anni lessi i libri di Raymond Chandler e ciò mi mise su quel sentiero. Da allora ho voluto diventare uno scrittore».

Dopo tanti successi letterari qual è il suo rapporto con l’ispirazione? La sua voglia di scrivere è cambiata nel tempo?

«Devo andare in giro per trovarla, l’ispirazione. Trascorro molto tempo con avvocati e poliziotti e ascolto molte storie diverse, aspettando di sentire quella che mi colpirà e farà scattare la scintilla. Nei miei primi anni ero più affamato e desideroso di dimostrare qualcosa.  Adesso sono più interessato al lavoro vero e proprio e ai miei personaggi e non mi interessa più cosa si dice lì fuori, nel mondo».

Ha detto che un giovane scrittore deve leggere ogni giorno per tenere viva la fiamma.

«Credo che leggere serva a mettere benzina nel serbatoio. Se sei in procinto di scrivere una crime fiction allora devi certamente leggerne una ma non bisogna limitarsi a questo. Bisogna leggere anche saggistica, arte e opere in lingua originale. Insomma, leggete ogni singola cosa che vi capiti a tiro. Per quanto mi riguarda ultimamente sto leggendo da Charles Bukowski a Dennis Lehane sino a Donato Carrisi ».

 

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, 27 aprile 2013

Andrea Bajani: «Il lutto è il tentativo di abitare il vuoto di qualcuno che si è perso».

Tre diversi omaggi celebrano l’anniversario della scomparsa di Antonio Tabucchi, lo scrittore d’origini toscane che morì il 25 marzo dell’anno passato nella sua amata Lisbona. Feltrinelli – che pubblicò quasi tutte le sue opere – lo celebra con “Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema” (pp. 304, euro 20), una bella raccolta di scritti tematici cui lavorò sino agli ultimi giorni; Sellerio, pubblica “Racconti e romanzi” (pp.288, euro 16) una preziosa raccolta di scritti – “Donna di Porto Pim-Notturno indiano-I volatili del Beato Angelico-Sogni di sogni” – ed infine Emons:Audiolibri ha dato la voce dell’attore e regista Sergio Rubini al suo capolavoro, “Sostiene Pereira” (4h23’, euro 16,90). Ma l’omaggio più bello, in questa triste ricorrenza, prende vita da un aneddoto, difatti, a poche ore dalla sua scomparsa, Antonio Tabucchi non poté ne volle sottrarsi all’atto della scrittura. Quel racconto tutt’ora inedito, fu la scintilla che condusse il suo giovane e caro amico, l’affermato scrittore romano Andrea Bajani, a voler consegnare i suoi ricordi alle pagine di “Mi Riconosci” (Feltrinelli, pp.144, euro 12), un testo  dolce e profondo, capace di non scivolare mai nel declivio della morbosità. Qui l’amico scomparso, diviene personaggio letterario, realizzando la finzione letteraria per eccellenza. Bajani, raggiunto telefonicamente in un hotel parigino, risponde alle domande della Gazzetta del Sud, discutendo di Rilke, dell’amicizia e del potere della scrittura.

Perché questo libro? Il tono usato, oscilla fra riso e lacrime, dando l’idea di una dolorosa necessità.

«Nasce da un evento straordinario ovvero dal fatto che due giorni prima di morire, Antonio Tabucchi scrisse un racconto, dettandolo al figlio in un camera d’ospedale di Lisbona. Non fu una morte improvvisa. Progressivamente si stava spegnendo, eppure questo accadimento privato nascondeva una cosa più grande, la vera origine delle storie. Queste nascono soprattutto per affrontare l’ignoto e mi ha colpito che lui abbia sentito il bisogno di scrivere anche mentre si avvicinava la morte, riuscendo a far ricorso all’ironia, proseguendo questa sorta di danza scaramantica contro ciò che non conosciamo. Quando ho letto quel racconto ho subito pensato che dovevo narrarla, dovevo narrare la scomparsa di uno scrittore e la storia di un’amicizia».

Uno dei due amici che, scomparendo, diventa un personaggio d’un libro. Un’idea molto tabucchiana…

«Esatto. La letteratura ha fatto sempre i conti con i fantasmi e del resto lo scrittore ha a che fare, per giornate intere, con persone che esistono solo nella sua testa. Antonio Tabucchi ha sempre avuto un buon rapporto con i fantasmi perché intese la sua letteratura all’insegna del gioco del rovescio; come personaggio di finzione, fra le pagine d’un libro, ha potuto portarlo all’estremo, rovesciando la morte e la vita, immerso in una storia.

Vi siete conosciuti a Parigi, a casa di un amico comune, tanti anni fa. Tabucchi le aveva scritto una lettera pronta per essere spedita…

«Nel libro tutto è reale e tutto è finto ma la lettera c’era davvero e lui l’aveva già affrancata. Me la consegnò ma per anni non la trovai più. Ma appena terminai di scrivere questo libro, venni preso dal desiderio di sistemare i libri in casa mia e di colpo, riapparve, nascosta fra le pagine di un volume. Era la lettera di un grande scrittore che mi trasferiva l’emozione resagli dall’aver letto il mio libro, “Se consideri le colpe”. Quando uscì questo libro più persone mi chiesero di poter pubblicare questa lettera, però adesso sembra sia scomparsa daccapo. Ecco, queste sono le “tabuccate”».

Apre il libro con una significativa citazione di Rilke. Come mai?

«Non conosco scrittore che sia sceso con tanta grazia dall’altra parte, nel confronto con chi non c’è più, come Rilke ne “I sonetti a Orfeo” e soprattutto ne “Le elegie duinesi”.

Mi riconosci, il titolo scelto, significa stare ad ascoltare il fantasma, provare ad ascoltare chi non c’era più. Questo libro racconta come nascono e si raccontano le storie ma soprattutto come si possa essere amici, indipendentemente dalle età e da cosa ci riserva la vita».

Alla fine scrive, “il lutto è il tentativo di abitare il vuoto di qualcuno che si è perso”.

«Le persone abitano degli spazi dentro noi ma poi sono costretti ad andare via. O meglio, scompare la materialità, la concretezza della carne ma non tutto il resto. Il lutto è riuscire a far sì che ciò che resta di quella persona scomparsa, trovi il suo posto dentro noi».

Nel corso delle telefonate notturne emerge un rapporto tormentato con l’Italia.

«Con il nostro paese aveva un rapporto davvero difficile, d’amore e odio. Prima di tutto l’Italia era la lingua, che ha amato intensamente, ma questo paese lo faceva soffrire e citava Pasolini per sottolineare quanto fosse malandata. Il berlusconismo, per lui è stato davvero pesante, ha ricevuto diverse querele e ha cercato di difendersi come poteva, con le parole. L’Italia, per lui, era una ferita aperta».

Infine, a proposito di scrittura, cosa le ha insegnato Tabucchi?
«La lezione più importante è stata la sua volontà di stare con i piedi molto per terra e la testa molto nel cielo, la capacità raccontare le pieghe oniriche del mondo senza rinunciare a stare concretamente nella realtà socio-politico in cui viveva».

 

Francesco Musolino

Fonte: La Gazzetta del Sud, 25 marzo 2013

vedi anche http://www.marcovigevani.com/tag/antonio-tabucchi/

«Scrivere è l’unico modo per esprimere me stesso». Andrea Carlo racconta “Villa Metaphora”

Andrea De Carlo
Andrea De Carlo

In un lussuosissimo resort nell’immaginaria isola di Tari a sud della Sicilia, si incontrano quattordici personaggi assai diversi fra loro – come il petulante politico, il ricchissimo banchiere e una famosa attrice – specchio della nostra contemporaneità piuttosto desolante, lungo un arco narrativo che sfiora le mille pagine. Si presenta così “Villa Metaphora”, il nuovo libro dello scrittore milanese Andrea De Carlo (Bompiani, pp. 924 euro 19,50) una vera e propria sfida per il lettore. Ma l’autore di “Treno di panna” e “Due di due” precisa: «tutto ciò fa parte della medesima catena narrativa sbocciata quando mia madre mi regalò una Lettera22 portatile, rossa». Senza dimenticare l’incoraggiamento ricevuto da Italo Calvino.

È vero che questa storia la inseguiva da diversi anni?

«Sono passati otto anni dalla prima volta che ho immaginato Villa Metaphora e ne sono serviti cinque per scriverla. La mia idea era quella di raccontare la nostra realtà mediante il punto di vista di un gruppo di quattordici persone molto diverse fra loro, bloccate per un periodo nel medesimo luogo ovvero un lussuoso resort sull’isoletta di Tari».

La struttura narrativa che utilizza ricorda il Decameron.

«È una struttura antica che permette al narratore – e anche al lettore – di osservare e registrare tanto le azioni che le reazioni dei personaggi. È come una riproduzione in scala della contemporaneità».

Ha dichiarato che costruisce i personaggi come fossero all’Actor’s Studio, donandogli un retroterra adeguato. Far collimare tante personalità sulla pagina è stato arduo?

«Ha richiesto molto tempo e attenzione. Ho dovuto condurre studi e ricerche in diversi campi prima di mettermi a scrivere ma la cosa più impegnativa è stato il processo di immedesimazione, voler vedere il mondo dal punto di vista del personaggio, trasferendomi in ciascuno di esso».

Che quadro ne viene fuori?

«Piuttosto desolante. Emergono grandi contraddizioni, conflitti fra mondi paralleli. Ciascuno persegue la propria strategia per raggiungere i propri fini partendo dal presupposto che il mondo sia sempre in nostro controllo e, dunque, inevitabilmente destinato ad essere spremuto sino alla fine per perseguire i nostri interessi».

decarlo1Ha scelto di creare l’isola di Tari e persino una nuova lingua. Perché?

«Volevo essere libero di muovermi e di inventare, per tale motivo ho scelto un’isola immaginaria e le ho costruito una storia fatta di successive occupazioni e colonizzazioni, da cui è sorta una strana lingua, frutto di tante miscele. Creare una lingua e una grammatica minima, è stato molto divertente ma anche faticoso, mi ha condotto nel campo delle lingue artificiali e sperimentali come l’esperanto o l’ido».

Nel libro ricorre il numero 7 e proprio il 7 novembre Villa Metaphora è giunto in libreria. Lei ha dichiarato di credere nel destino e non nelle singole coincidenze ma non sono due facce della stessa medaglia?

«Più vivo più sento che le coincidenze non siano tali ma le conseguenze inevitabili di percorsi tracciati dai quali è impossibile allontanarsi. Sì, nel libro ricorre il numero 7, del resto è un numero che ha sempre affascinato tutte le culture, talvolta considerato simbolo di perfezione e associato al ciclo lunare. Credo che pensare ad un percorso piuttosto che a singoli eventi casuali, ci permetta di essere più ricettivi, cogliendo il fatto che alcune cose possano verificarsi solo quando è scritto e altre, semplicemente, non accadono e faremmo meglio a non nuotare contro corrente, aspettando che i tempi siano maturi».

Fondamentale fu l’incontro con Italo Calvino. Come accadde?

«Inviai il mio primo romanzo, “Treno di panna” a diversi editori che non mi risposero nemmeno. Mi consigliarono di inviarlo all’Einaudi, proprio all’attenzione di Calvino ma il manoscritto finì a Natalia Ginzburg che mi rispose con una cortese lettera di rifiuto. Tuttavia il libro arrivò infine a Calvino, il quale mi rispose con grande entusiasmo. Un’apparente coincidenza? Penso che ci fosse la mano del destino nella possibilità che un grande scrittore volesse aiutare un nuovo autore ad emergere».

È vero che leggendo Fenoglio ha appreso una grande verità circa il successo letterario?

«“Il Partigiano Johnny”, il suo capolavoro, fu pubblicato solo postumo anche per colpa dell’invidia dei suoi colleghi. Ma alla fine è giunto al lettore con tutta la sua forza. Ciò testimonia che alla lunga l’apprezzamento arriva e che non bisogna farsi influenzare troppo dal successo delle vendite. Del resto, anche Scott Fitzgerald, ai suoi tempi, non era certo in cima alle classifiche».

Recentemente Philip Roth ha annunciato di aver rinunciato a scrivere. Per lei cosa significa scrivere?

«Continua ad essere una sfida, un piacere, l’unico modo per esprimermi, per parlare di ciò che sento. La posizione di Roth è degna di rispetto, si vedono troppi artisti che si trascinano innanzi, ripetendo se stessi. Credo che quando non troverò più dentro di me le giuste motivazioni, smetterò anch’io».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, 21 dicembre 2012

Philippe Djian: «I giovani hanno voglia di vendicarsi»

Vendette (Voland edizioni; pp. 160), il nuovo romanzo di Philippe Djian è un libro lacerante, tanto da riuscire a farsi beffe del moralismo dominante nella società borghese non solo francese, capace di mostrare con chiarezza che le passioni, le emozioni, benché sopite sono ancora fortemente radicate nell’animo umano e possono irrompere nella vita quotidiana con un impatto devastante, facendosi beffe delle etichette sociali, travolgendo persino le amicizie più salde nel tempo, apparentemente granitiche. 

Djian – già autore di 37°2 al mattino, Imperdonabili Incidenze (tutti editi da Voland) – rende un esplicito tributo a Teorema di Pasolini con un romanzo che ci mette di fronte al dolore per la prematura perdita del proprio figlio che attanaglia Marc, scultore contemporaneo di grande successo, nella Parigi dei giorni nostri. Il baratro per la perdita e dell’autocommiserazione nel quale piomba rapidamente, renderà impossibile la sopravvivenza della sua storia d’amore con Élisabeth, decisa a non sopportare più il fardello del lutto. A quarantacinque anni, Marc piange Alexandre, il proprio figlio suicida, potendosi appoggiare solo sulla spalla di Michel e Anne, i suoi amici di sempre con i quali condivide un passato di azioni politiche ben poco ortodosse. Ma un giorno, nella sua vita piomba Gloria, la ragazza di suo figlio e Marc, sorprendendo tutti persino se stesso, la accoglie in casa. Una giovanissima, affascinante, imbronciata e incazzata lolita, viene ospitata in casa del padre del proprio ex e Marc, donnaiolo con una passione per la coca e l’alcool, è indeciso se questa sia una possibilità di redenzione o un castigo divino…

Qual è il suo personale rapporto con la vendetta?

«L’idea che sta alla base del romanzo è affrontare la vendetta e il perdono, anche se non li ho mai studiati in modo preciso. Un modo di analizzare questi sentimenti forti, che quando vengono interrotti portano alla rottura di legami. Io credo che sia meglio un legame violento piuttosto che non avere legami. I giovani hanno voglia di vendicarsi e questo è quello che prova Gloria, vuole portare il caos, come in Teorema di Pasolini ma al contrario».

Gloria afferma che il perdono è impossibile. Crede che il perdono sia possibile o che sia solo una facciata necessaria per la convivenza pacifica?

«Se dice che il perdono serve non è certo per ottenere un ambiente pacifico in cui vivere. Non c’è redenzione, ma piuttosto un’attitudine generale, non solo generazionale, verso un sentimento molle. Certamente non è bello basare le relazioni su questo tipo di sentimenti. Non è così semplice quando ti macchi di una qualsiasi colpa, venire perdonato. Se ti rompi una gamba, poi si aggiusta, ma resta sempre un punto debole. Gloria sa che deve vendicarsi e questo la tiene in vita, mentre il figlio di Marc si uccide, o forse è il suo modo di vendicarsi».

Qual è il suo rapporto con l’ispirazione letteraria? La attende o la insegue?

«Non esiste l’ispirazione, per fare della letteratura non si aspetta la grazia. La scrittura è un lavoro, bisogna scrivere, riscrivere, limare continuamente. L’ispirazione c’è solo nei film. Secondo me l’ispirazione non è una cosa da bravo scrittore».

Élisabeth dice a Marc che lasciarsi andare al dolore del lutto è inutile. Non le pare che l’elaborazione del lutto spesso sia più necessaria per la collettività, piuttosto che per chi ha subito la perdita?

«Non lo so, lei gli rimprovera che lasciarsi andare alla pena e alla tristezza è un modo di non affrontare il vero dolore. A volte si sviene per non affrontare il dolore. Ma il dolore del lutto è per chi resta, e per Marc sta nell’autoimpietosirsi che è quello che Elisabeth gli rimprovera».

Spesso si dice che l’opera d’arte sia un perfetto modo per scampare alla mortalità eppure le opere d’arte di Marc sembrano destinate all’autodistruzione. Crede nel potere salvifico dell’arte?

«No, appunto Marc sostiene il contrario e io penso lo stesso. Marc è un creatore che sa che il suo lavoro si distruggerà. Se credo che l’arte abbia un potere salvifico? No, non ce l’ha. Io non scrivo per essere salvato».

Leggendo “Vendette” si ha la sensazione che da un momento all’altro scopriremo tutto su Gloria, sul suo modo di fare e sulle sue misteriose compagnie. Al contrario lei sceglie con coraggio di mantenere molti punti interrogativi senza il classico punto di vista onnisciente.

«Penso che non c’erano dei lati della personalità di Gloria che mi interessassero tanto. Lei riesce a rompere l’amicizia tra i tre, poi finisce massacrata ma da un personaggio che non c’entrava niente con loro, in tutt’altra situazione. Gli altri suoi coetanei sono come dei suoi cloni con cui Marc non riesce neanche a comunicare, non parlano neanche la stessa lingua. È la ragazza alla fine che dice a Marc di andare dal suo amico, quindi anche se non c’è più Gloria lo stesso sentimento viene portato avanti perché le armi di Gloria e dei suoi amici sono più forti, come in Teorema il meccanismo è inesorabile».

Infine le giro una considerazione che Anne rivolge a Marc: fare sesso orale è tradire?

«Ma cosa vuol dire tradire? Negli Stati Uniti c’è stata tutta una teoria Clinton sulla differenza del sesso orale… Ma cosa vuol dire tradire. Fai male all’altro? no. Tradire è andare a denunciare un ebreo ai tedeschi. Se pensi che tradisci, allora tradisci. Ci sono a volte sguardi che tradiscono di più. Ti rendi disponibile all’altro e quindi già tradisci. Quando ero giovane ero molto geloso, certo non mi piace pensare che la mia compagna stia con un altro…

Francesco Musolino

Fonte: Satisfiction