Il Male e il suo fascino irresistibile. Pietrangelo Buttafuoco racconta “I cinque funerali della Signora Göring”

buttaLa baronessa Carin von Fock ed Hermann Göring, furono protagonisti di una tragica storia d’amore che li mise al centro del grande romanzo popolare, una delle operazioni più importanti del ministero della propaganda nazista, guidato da Joseph Goebbels. Ma dietro lo splendore di una bellissima nobildonna che si innamorò dell’eroe dei cieli e maresciallo del Reich, si celano anni di malattia e un finale spietato. Con una scrittura lirica, una danza con le parole che arriva ad evocare la potenza delle note di Wagner, lo scrittore siciliano Pietrangelo Buttafuoco racconta questa storia d’amore a cavallo fra le due grandi guerre ne “I cinque funerali della signora Göring” (Mondadori, pp.180 €18). E’ il Male, la sua essenza ciò che trasuda dalle pagine di Buttafuoco, quella potenza oscura che rifiutiamo pur non essendone mai immuni. Ma è da segnalare che sull’onda del grande e recente successo editoriale, “Buttanissima Sicilia” ha debuttato in teatro a Caltanissetta – sabato 11 ottobre in prima nazionale presso il Teatro Regina Margherita alle ore 21 con Salvo Piparo, Costanza Licata e Rosemary Enea, per la regia del giornalista  Giuseppe Sottile del Basto: «Abbiamo messo in scena alcuni brani di questo libro che definisco da svenimento, praticamente un dizionario di cose mai dette sulla nostra Sicilia, capace di scalfire il conformismo sui temi di mafia e antimafia». Con Pietrangelo Buttafuoco abbiamo parlato del nuovo romanzo “I Cinque Funerali della Signora Göring“.

Perché raccontare la storia d’amore fra Carin von Fock ed Hermann Göring?

«E’ una storia tragica, dolce e crudele. Tutto partì con quella foto su Life divenuta copertina di questo libro; allora lavoravo a “Le uova del drago” ma sapevo già che avrei dovuto raccontarla». Continua a leggere “Il Male e il suo fascino irresistibile. Pietrangelo Buttafuoco racconta “I cinque funerali della Signora Göring””

Amélie Nothomb si racconta: «Nella mia natura convivono l’estrema bellezza nipponica e il grottesco della realtà belga».

Amélie Nothomb
Amélie Nothomb

Ogni anno il nuovo libro della scrittrice belga, Amélie Nothomb è un evento letterario se non propriamente mediatico. Il suo cappello a cilindro di velluto nero e la prosa, lieve eppure insieme pungente, surreale e sofisticata, ne segnano il cammino letterario sin dall’esordio con “Igiene dell’assassino” nel 1992, cui sono seguiti ben venti libri, con una invidiabile cadenza annuale. Del resto è ormai noto che la Nothomb scriva ogni giorno dalle 4 alle 8 di mattina in una stanza riservatale dal suo editore parigino e ogni anno, tocca a lei decidere in piena autonomia, quali dei suoi manoscritti verranno riposti in delle scatole di scarpe – pare siano ormai centinaia gli inediti custoditi – e quale di questi, invece, verrà dato alle stampe. Nei suoi libri ci sono sempre elementi autobiografici ma in alcuni si narra esclusivamente il suo vissuto, come accade nel ventunesimo romanzo da poco edito, “La nostalgia felice” (Voland, pp. €). In questo libro, grande protagonista della réentre letteraria francese e nato da un «senso d’urgenza», l’autrice ricuce il legame affettivo con la sua patria, il Giappone, in cui nacque e visse la propria infanzia – il padre era un celebre diplomatico – prima di lasciarlo bruscamente e non senza traumi affettivi. “La nostalgia felice” nasce come naturale conseguenza di un documentario per la televisione francese, “Amélie Nothomb: une vie entre deux eaux”, che ha seguito il ritorno in Giappone della Nothomb nella primavera del 2012, dopo ben sedici lunghi anni di lontananza, culminati con l’incontro con il primo amore d’un tempo, Rinri – di cui si parla in “Né di eva né di Adamo”, 2004 – ma soprattutto nell’abbraccio con la sua tata, Nishio-San, considerata una seconda madre. Un legame talmente forte che la casa editrice Voland – nel loro catalogo l’intero corpus romanzesco della Nothomb – ha scelto una loro tenera foto d’epoca per la copertina del libro. Un libro-documentario, molto personale e capace di trasmettere al lettore occidentale cosa sia la nostalgia felice: un sentimento ignoto all’animo occidentale che colpisce puntualmente chi si innamora del Giappone e della sua tragica bellezza.

“Ricapitoliamo. È il 28 marzo 2012. Sono una scrittrice belga che, dopo un’assenza molto lunga, ritrova il paese dei suoi primi ricordi”. Madame Nothomb, qual è il suo rapporto con la memoria? È pericoloso immergersi nei ricordi e nelle sensazioni dolci e amare del passato?
«Sì, è molto pericoloso. Quando l’emittente francese France 5 mi ha proposto di fare un documentario sul mio ritorno in Giappone ho accettato perché pensavo che nessuno avrebbe investito dei soldi in questo progetto: chi poteva mai essere interessato al mio ritorno in Giappone? Invece 2 mesi dopo Laureline Amanieux e Luca Chiari mi hanno detto che avevano trovato i fondi e che potevamo partire. Così, nella primavera del 2012 sono tornata in Giappone, 16 anni dopo averlo lasciato. Vuole la verità? Sembra che non possa stare lontana dal suolo nipponico, ho bisogno di poggiare i piedi su quel suolo vulcanico per ritrovare le mie energie».

Con che animo è partita per questo viaggio nella memoria? 
«Ero molto preoccupata. È sempre molto pericoloso tornare nei luoghi sacri della propria infanzia e fa ancora più paura se si decide di tornare accompagnati da una telecamera che ti segue ovunque. Invece si è rivelato tutto perfetto e quello che sembrava poter diventare un incubo si è rivelato un miracolo».

la-nostalgia-Sin dalla copertina (italiana) ci si immerge nel suo vissuto. Il passato non torna mai ma ci si può far pace?
«Quando ho ritrovato, Nishio-San la mia tata giapponese, la mia seconda madre da cui ero stata strappata a 5 anni ero molto agitata, ci eravamo parlate per telefono e lei aveva ancora una voce giovanile. Avevo lasciato una donna che aveva circa trentacinque anni e che nei miei ricordi era alta, invece ho ritrovato una signora molto anziana, piccolissima e fragile. E poi ho trovato una donna molto sola, aveva lavorato tutta la sua vita per le figlie e si ritrovava da sola a vivere in un palazzo popolare nella periferia di Kobe. Quando le ho chiesto di Fukushima non ne sapeva niente: è incredibile quali miracoli possa compiere la vecchiaia. Alla fine del nostro incontro la riservatezza ed educazione giapponese è scomparsa, ci siamo abbracciate e ritrovate».

Il fascino che emerge parlando del Giappone è quello di un paese proiettato verso il futuro, all’avanguardia, ma ancorato alle tradizioni. Come compiere un passo avanti con lo sguardo indietro?
«Il Giappone è un paese molto tecnologico ma dove le tradizioni si conservano, sembra che riescano a modificarsi al minimo di un centimetro ogni dieci anni. Spesso la gioventù giapponese fa pensare che ci sia un vero e proprio cambiamento nei costumi, ma è un’illusione, vale solo per i giapponesi dai 13 ai 25 anni. Perché compiuti i 25 anni rientrano nei ranghi, si vestono come si deve e si pettinano normalmente».

Che tratto ha lasciato nel suo carattere il Giappone? Forse la costante ricerca della bellezza e dell’armonia?
«Io sono nata in Giappone ma da genitori belgi. Ho in me l’estrema bellezza del Giappone e il grottesco belga. È uno strano miscuglio».

Che vita sarebbe stata la sua, se fosse rimasta in Giappone, con la tata amorevole e il suo fidanzato…se l’è mai domandato?
«Ad essere sinceri non l’ho fatto. Ma ho capito perché con Rinri, il mio primo amore, una persona meravigliosa, non potevo restare. Con lui c’era una sorta di disagio, non in una accezione negativa, piuttosto è una sorta di attenzione eccessiva per l’altro; è come se si spostasse il proprio centro di gravità verso l’altro. È un sentimento anche bello ma soprattutto scomodo. Probabilmente esistono coppie giapponesi che vivono così una vita intera ma per me non poteva andar bene».

Sappiamo le sue abitudini nello scrivere, gli orari che segue rigidamente e il tè nero con cui si accompagna. Ma scrivere cos’è per lei? Catarsi, ragione di vita, piacere…?
«Per me scrivere è essenziale, è vivere. Devo scrivere quelle 4 ore, dalle 4 alle 8 di mattina, e mi costa anche fatica farlo perché non sono certo masochista, ma se non lo facessi, semplicemente starei male».

Ogni anno i lettori attendono di tutto il mondo attendono il suo nuovo libro. Un giorno pubblicherà tutti gli inediti che conserva nelle scatole delle scarpe?
«No, ho pensato di consegnarli agli archivi del Vaticano. L’unico luogo veramente sicuro al mondo».

Francesco Musolino®

Fonte: La Gazzetta del Sud, aprile 2014

Amélie Nothomb: «Aveva ragione Barbablù, bisogna difendere i propri segreti».

Da molti anni ormai, con una puntualità che rende felice i suoi numerosi lettori, giunge alle soglie della primavera il nuovo romanzo della scrittrice belga Amélie Nothomb. Con “Barbablù” (come sempre edito dalla Voland di Daniela Di Sora) si tocca quota ventuno ma dato il bisogno quasi fisico di scrivere – un’alchimia che accade ogni giorno dalle 3 alle 7 di mattina – ad oggi la Nothomb ha scritto ben settantasei romanzi e gli inediti sono custoditi con cura nelle sue scatole delle scarpe. In questo nuovo libro viene riletta la celebre fiaba dai toni cupi di Charles Perrault, narrandola dal punto di vista del Mostro per denotare l’attualità della storia ovvero la quasi impossibilità di custodire un segreto nell’epoca moderna. Ma se l’amore è mistero anche per l’autrice, non si può venire meno a degli spazi protetti e la violazione della fiducia riposta nell’amato può comportare gravi conseguenza, proprio come accade per il femminicida Barbablù. Al centro della vicenda troviamo il ricchissimo don Elemiro, il più nobile fra i nobili di Spagna esule in Francia che, rinchiusosi nella sua lussuosa casa, ne affitta una stanza per avere una compagnia femminile. Si presenta una giovane belga, Saturnine che coglie al volo l’occasione ma è decisa ad indagare sulla sorte  delle otto precedenti affittuarie, misteriosamente scomparse. In Barbablù ritornano i dialoghi scoppiettanti ed arguti che hanno resa famosa l’autrice ma si tratta di un titolo imperdibile per i suoi fan poiché la Nothomb riporta in pagina anche le sue più grandi passioni, oltre la scrittura ovviamente; vi si celebra l’oro liquido, lo champagne di grandi marche (come in “Causa di forza maggiore”), la passione per i nomi con carattere (già evidenziata in “Dizionario dei nomi propri”) e in ultimo, quella per i colori, del resto a 18 anni la Nothomb – che indossa sempre un caratteristico  cappello a cilindro nero – scrisse un’inedita “Metafisica dei colori”. L’autrice ha risposto alle nostre domande dal suo ufficio parigino, a Montparnasse, sede del suo storico editore d’Oltralpe.

Perché ha scelto la fiaba-nera di Charles Perrault?

«Barbablù è sempre stata la mia favola preferita ma trovavo che Perrault non era stato giusto, corretto, con il suo personaggio. Io volevo mostrare che Barbablù aveva ragione».

Come mai il suo moderno Barbablù è spagnolo?

«Perrault per il suo Barbablù si è ispirato a Enrico VIII Tudor, che io detesto. Volevo per questo un Barbablù che fosse il suo opposto. L’opposto di un inglese è certamente uno spagnolo».

Un romanzo che parte da una fiaba ma tratta dell’importanza della privacy nella società odierna…

«Anche per questo il mio romanzo è d’attualità. Bisogna legiferare per proteggere i propri segreti».

I colori sono protagonisti assoluti però per se stessa ha scelto il nero…

«Il nero sta bene con tutti i colori! E così posso comprare solo un detersivo, il detersivo per il nero».

Stupisce sempre che cruenti criminali possano avere schiere di ammiratrici, eppure accade puntualmente. È questo cui si riferisce Don Elemiro fotografando il lato oscuro della femminilità?

«È esattamente così. Come dico anche in quest’ultimo romanzo nella maggior parte delle donne, esiste indubbiamente una forma di masochismo. Ho visto troppe donne soccombere all’attrazione di ripugnanti pervertiti».

Saturnine cerca di giustificare don Elemiro salvo poi arrabbiarsi con se stessa. La perdita del giudizio è uno dei rischi legati all’innamorarsi?

«Oh si! E’ una cosa che abbiamo continuamente sotto gli occhi».

Scrive che “Il concetto di sostituzione è alla base del disastro dell’umanità”. Perché?

«Il concetto di sostituzione contesta l’unicità della persona umana. Questo concetto rende possibile il capitalismo selvaggio».

Questo è il suo settantaseiesimo libro, che rapporto ha con l’ispirazione legata alla scrittura?

«L’ispirazione è come una ferita. Non bisogna lasciare che si cicatrizzi. Per farla continuare a sanguinare bisogna scrivere continuamente. È quello che faccio».

Anche lei è guidata dall’ascesi come profetizza debba farsi don Elemiro per ogni attività creativa?

«Si sono una asceta, tranne che per lo champagne».

Tutti i suoi libri italiani sono editi da Voland, un binomio perfetto. Come si trova il proprio editore ideale?

«Voland ed io siamo un miracolo fattosi realtà. Bisogna credere ai miracoli e cercare il proprio».

 

Francesco Musolino

Fonte: La Gazzetta del Sud, 6 marzo 2013

Philippe Djian: «Cerco semplicemente la lingua giusta per rappresentare il mio mondo».

Philippe Djian non è interessato alle storie. O meglio, al romanziere francese considerato l’ultimo erede della Beat Generation e divenuto celebre a livello internazionale grazie al grande successo ottenuto con 37°2 al mattino (da cui è stato tratto nel 1986 il film Betty Blue con Béatrice Dalle protagonista) ciò che importa davvero è l’uso della lingua, che dev’essere “declinata alla giusta frequenza” per rappresentare il suo punto di vista, il suo mondo. Djian ha ricevuto numerosi premi in patria fra cui il Jean Freustiè nel 2009 e diversi scrittori transalpini, fra cui Michel Houellebecq, lo considerano il proprio maestro. Ben diciotto anni dopo la sua pubblicazione, la casa editrice Voland prosegue la valorizzazione di questo autore di culto, pubblicando Assassini (pp. 208 euro 14), primo capitolo di una trilogia. Quì Djian trasporta in lettore con grande ritmo e dialoghi pungenti, nella piccola Hénochville, una cittadina di montagna sovrastata da una fabbrica che sta avvelenando il fiume della regione, donando ricchezza e al tempo stesso, morte. In una notte di pioggia torrenziale i protagonisti saranno costretti a fare i conti con se stessi mentre su loro incombe proprio il fiume, pronto ad una fatale esondazione.

“Lavoravo per un assassino”. Comincia così Assassini ma quanto è importante un buon incipit nell’economia del libro?

«Perché dovrei iniziare con un incipit noioso? Sarebbe assurdo, toglierebbe la voglia al lettore di continuare. È come nelle gare per i corridori, si inizia con un colpo di pistola poi se sono i 100 metri o è una maratona, si vedrà; come accendere una miccia, e poi la prima frase dà tutta l’atmosfera del romanzo. La prima frase è come il diapason che dà il là a un musicista ma poi bisogna tenere la nota altrimenti crolla tutto».

Anche in Assassini il sentimento dell’amicizia, il legame fra uomini adulti è centrale. Crede davvero in questo sentimento già decantato da Cicerone?

«Non credo nell’amicizia come a un sentimento privo di conflitti, un sentimento in cui c’è una comprensione totale. Per esempio nel mio ultimo romanzo (Oh…, edito da Gallimard in Francia ed ancora inedito in Italia) la protagonista va a letto con il marito della sua migliore amica ma nonostante ciò, il suo tradimento non toglie valore al sentimento d’amicizia. In realtà l’amicizia non è come quella idilliaca di Cicerone, l’amicizia è strana come la vita stessa d’altronde».

Marc afferma che forse abbiamo già passato il segno, che non è possibile rompere la catena produttiva e invertire il corso delle cose, salvando noi stessi e la Terra. È d’accordo?

«Sì, credo non ci sia ritorno. Forse inventeremo qualcosa che migliorerà un poco la situazione, del resto l’ingegno dell’uomo può trovare altre soluzioni per superare i problemi del nostro mondo ma non sono Nostradamus, non lo so davvero. Non credo che gli scrittori sappiano quello che succederà. A me non interessa neanche cosa succederà tra vent’anni. Oggi, almeno in Francia, tutti criticano l’OGM ma se non ci fosse l’OGM non ci sarebbe abbastanza da mangiare per tutti. Che fare? Il padre di José Bovè è uno scienziato e dice che suo figlio è un coglione e secondo lui bisogna sperimentare, andare avanti con la scienza, fare ricerca ma anche José Bovè ha le sue ragioni. Tempo fa mi hanno invitato in Irlanda a una conferenza il cui tema è la “decelerazione” ma non credo che nemmeno questa sia la soluzione. Oggi con lo sviluppo della Cina e di altri paesi, l’Occidente si preoccupa di quello che potrebbe accadere ma allo stesso tempo dopo aver fatto tutto quello che volevamo, noi occidentali come potremmo dire ai paesi in crescita: “non vi comprate tutti la macchina, non mangiate tutti la carne altrimenti il mondo scoppia”? Ma non so cosa risponderle, io sono solo uno scrittore».

Il legame fra produzione-lavoro-inquinamento è drammaticamente attuale a spese dell’ecosistema. In generale crede che l’uomo possa imparare dai suoi errori o sia destinato a ricadervi fatalmente?

«L’uomo impara, certo, ma ci ricasca sempre. Oggi sappiamo a cosa portano gli investimenti delle banche ma non facciamo niente contro. Ci ricadiamo puntualmente. L’uomo cerca la sua soddisfazione, il suo piacere a discapito degli altri. Oggi le banche investono sul grano e sappiamo benissimo a cosa porta questo ma non facciamo niente. Blythe Masters, ex JP Morgan, la donna più potente del mondo, definita dal “Guardian” come “la donna che ha inventato le armi finanziarie di distruzione di massa” ha messo su una società che investe solo su materie prime e non sono solo numeri, quelle sono popolazioni messe in ginocchio…»

Com’è nata l’idea di questa trilogia? Cosa ci aspetta nei prossimi due libri?

«L’idea della trilogia è molto semplice. Quando ho consegnato il romanzo all’editore Gallimard, mi ha detto che gli sarebbe piaciuto che il romanzo fosse stato più lungo e io gli ho subito risposto che in realtà quello era il primo romanzo di una trilogia. Il secondo volume che ho scritto non aveva nessun rapporto con il primo, è scrivendo il terzo che ho collegato tutto. Nel primo volume il protagonista racconta la storia delle persone che vivono sul lato destro del fiume, nel secondo racconta le storie del lato sinistro del fiume e nel terzo si capisce tutto. Le storie mi annoiano in realtà quello che mi interessa è la lingua. Nei miei libri affronto sempre temi esistenziali: la morte, la famiglia… Non parlo di attualità, come Aurelien Bellanger, o di cose vissute, come Christine Angot. Alla rentrée littéraire quest’anno sono praticamente il solo a non parlare di cose “vere”. Mi dicono che nel mio libro c’è una trama degna di Hitchock. Certo bisogna che la storia regga che attiri, che ci si industri, ma non è quello che mi interessa».

Ha dichiarato che, giovanissimo, dopo aver letto Il Giovane Holden, ha deciso di fare lo scrittore. Perché? Quale esigenza voleva soddisfare?

«Volevo semplicemente trovare la lingua giusta per rappresentare il mio mondo. È come alla radio quando si cerca la frequenza, a un certo punto trovi la frequenza giusta quella che funziona, così è la lingua. Nei miei libri in fondo racconto sempre le stesse storie, non c’è niente di particolare. Potrei dire che se fossi un regista sarei interessato alla posizione della telecamera, all’inquadratura. Quando scrivo è come se avessi un suono dentro, una lingua che parla dentro di me, poi si può scrivere quello che si vuole: gialli, storie d’amore, fantascienza; non ci sono generi minori ci sono solo scrittori minori».

Francesco Musolino

 

Fonte: La Gazzetta del Sud, ottobre 2012

Philippe Djian: «I giovani hanno voglia di vendicarsi»

Vendette (Voland edizioni; pp. 160), il nuovo romanzo di Philippe Djian è un libro lacerante, tanto da riuscire a farsi beffe del moralismo dominante nella società borghese non solo francese, capace di mostrare con chiarezza che le passioni, le emozioni, benché sopite sono ancora fortemente radicate nell’animo umano e possono irrompere nella vita quotidiana con un impatto devastante, facendosi beffe delle etichette sociali, travolgendo persino le amicizie più salde nel tempo, apparentemente granitiche. 

Djian – già autore di 37°2 al mattino, Imperdonabili Incidenze (tutti editi da Voland) – rende un esplicito tributo a Teorema di Pasolini con un romanzo che ci mette di fronte al dolore per la prematura perdita del proprio figlio che attanaglia Marc, scultore contemporaneo di grande successo, nella Parigi dei giorni nostri. Il baratro per la perdita e dell’autocommiserazione nel quale piomba rapidamente, renderà impossibile la sopravvivenza della sua storia d’amore con Élisabeth, decisa a non sopportare più il fardello del lutto. A quarantacinque anni, Marc piange Alexandre, il proprio figlio suicida, potendosi appoggiare solo sulla spalla di Michel e Anne, i suoi amici di sempre con i quali condivide un passato di azioni politiche ben poco ortodosse. Ma un giorno, nella sua vita piomba Gloria, la ragazza di suo figlio e Marc, sorprendendo tutti persino se stesso, la accoglie in casa. Una giovanissima, affascinante, imbronciata e incazzata lolita, viene ospitata in casa del padre del proprio ex e Marc, donnaiolo con una passione per la coca e l’alcool, è indeciso se questa sia una possibilità di redenzione o un castigo divino…

Qual è il suo personale rapporto con la vendetta?

«L’idea che sta alla base del romanzo è affrontare la vendetta e il perdono, anche se non li ho mai studiati in modo preciso. Un modo di analizzare questi sentimenti forti, che quando vengono interrotti portano alla rottura di legami. Io credo che sia meglio un legame violento piuttosto che non avere legami. I giovani hanno voglia di vendicarsi e questo è quello che prova Gloria, vuole portare il caos, come in Teorema di Pasolini ma al contrario».

Gloria afferma che il perdono è impossibile. Crede che il perdono sia possibile o che sia solo una facciata necessaria per la convivenza pacifica?

«Se dice che il perdono serve non è certo per ottenere un ambiente pacifico in cui vivere. Non c’è redenzione, ma piuttosto un’attitudine generale, non solo generazionale, verso un sentimento molle. Certamente non è bello basare le relazioni su questo tipo di sentimenti. Non è così semplice quando ti macchi di una qualsiasi colpa, venire perdonato. Se ti rompi una gamba, poi si aggiusta, ma resta sempre un punto debole. Gloria sa che deve vendicarsi e questo la tiene in vita, mentre il figlio di Marc si uccide, o forse è il suo modo di vendicarsi».

Qual è il suo rapporto con l’ispirazione letteraria? La attende o la insegue?

«Non esiste l’ispirazione, per fare della letteratura non si aspetta la grazia. La scrittura è un lavoro, bisogna scrivere, riscrivere, limare continuamente. L’ispirazione c’è solo nei film. Secondo me l’ispirazione non è una cosa da bravo scrittore».

Élisabeth dice a Marc che lasciarsi andare al dolore del lutto è inutile. Non le pare che l’elaborazione del lutto spesso sia più necessaria per la collettività, piuttosto che per chi ha subito la perdita?

«Non lo so, lei gli rimprovera che lasciarsi andare alla pena e alla tristezza è un modo di non affrontare il vero dolore. A volte si sviene per non affrontare il dolore. Ma il dolore del lutto è per chi resta, e per Marc sta nell’autoimpietosirsi che è quello che Elisabeth gli rimprovera».

Spesso si dice che l’opera d’arte sia un perfetto modo per scampare alla mortalità eppure le opere d’arte di Marc sembrano destinate all’autodistruzione. Crede nel potere salvifico dell’arte?

«No, appunto Marc sostiene il contrario e io penso lo stesso. Marc è un creatore che sa che il suo lavoro si distruggerà. Se credo che l’arte abbia un potere salvifico? No, non ce l’ha. Io non scrivo per essere salvato».

Leggendo “Vendette” si ha la sensazione che da un momento all’altro scopriremo tutto su Gloria, sul suo modo di fare e sulle sue misteriose compagnie. Al contrario lei sceglie con coraggio di mantenere molti punti interrogativi senza il classico punto di vista onnisciente.

«Penso che non c’erano dei lati della personalità di Gloria che mi interessassero tanto. Lei riesce a rompere l’amicizia tra i tre, poi finisce massacrata ma da un personaggio che non c’entrava niente con loro, in tutt’altra situazione. Gli altri suoi coetanei sono come dei suoi cloni con cui Marc non riesce neanche a comunicare, non parlano neanche la stessa lingua. È la ragazza alla fine che dice a Marc di andare dal suo amico, quindi anche se non c’è più Gloria lo stesso sentimento viene portato avanti perché le armi di Gloria e dei suoi amici sono più forti, come in Teorema il meccanismo è inesorabile».

Infine le giro una considerazione che Anne rivolge a Marc: fare sesso orale è tradire?

«Ma cosa vuol dire tradire? Negli Stati Uniti c’è stata tutta una teoria Clinton sulla differenza del sesso orale… Ma cosa vuol dire tradire. Fai male all’altro? no. Tradire è andare a denunciare un ebreo ai tedeschi. Se pensi che tradisci, allora tradisci. Ci sono a volte sguardi che tradiscono di più. Ti rendi disponibile all’altro e quindi già tradisci. Quando ero giovane ero molto geloso, certo non mi piace pensare che la mia compagna stia con un altro…

Francesco Musolino

Fonte: Satisfiction